Sorbole e pensieri

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autunno: sorbole

Confesso: mi vergogno un po’. Comincio a sentirmi inadeguata in questo mondo sempre più affollato di gente di strepitosa, professionale efficienza.
Mi guardo attorno e mi sento un marziano: io e i miei post solo quando riesco a farli come piace a me, le risposte ai vostri commenti quando ce la faccio, le risposte alle mail con mesi (sì…) di ritardo. Facebook lo stretto indispensabile (“… cosa gliene importerà mai alla gente di sapere in tempo reale che sto per andarmene a letto!”), zero Twitter. Niente biglietti da visita, cellulare quasi sempre dimenticato altrove.

In queste ultime settimane – un ardito esercizio di equilibrismo che ricorderò – ho spesso pensato a cosa sia diventato, per me, questo blog.
Certo è il diario delle mie avventure commestibili: ma io non ho mai tenuto un diario in vita mia.
Sicuramente è una dépendance della mia cucina: ma avendone già un paio (un giorno vi spiegherò) davvero non sentivo l’esigenza di una terza.
Di sicuro non è un lavoro: ho già parecchie altre cose da fare, nella mia vita al di qua dello schermo del pc.
E neppure una ribalta: se mi chiamano ci penso cento volte prima di metterci la faccia, e quando ce la metto ci impiego altrettanto a raccontarlo.

La conclusione, tra un salto mortale e una piroetta sul filo, è stata una e inequivocabile: io non sarò mai una foodblogger professionista. Una di quelle serie, organizzate, costanti. Non ne ho l’indole…

E se due indizi fanno una prova, beh… io ne ho trovati almeno tre.

Numero uno: lo sanno tutti che un blog serio deve avere una certa regolarità, e non sono così ingenua da non comprenderne appieno la ragione. Ma a me i post vengono fuori se c’è qualcosa che… li chiama: un evento, una ricetta, un ricordo. Altrimenti è come se la tastiera fosse congelata: le lettere non ne vogliono sapere di disporsi con ordine e dar voce ai miei pensieri.

Numero due: è inconcepibile che dietro un blog di cucina ci sia qualcuno che non ne sa un bel niente di fotografia. Corsi, concorsi, trattati di ottica, commenti su inquadrature, luci, sfondi: son quasi tutti dei professionisti. E quelli che erano strofinacci, tazze e caccavelle adesso si chiamano “props”. Letteralmente: “materiale di scena”. Come a teatro…
Io ci ho messo un pomeriggio a comprare una macchina fotografica, perché mi mancavano persino i vocaboli per esprimermi (ho fatto inferocire due commessi prima di essere affidata al paziente “anziano” del negozio). E un anno per capire come funziona: adesso so che pigio dei tasti e succedono delle cose (… quasi sempre), ma se mi chiedono che obiettivo uso non so rispondere.
Ora: vi sembro una che può aprire le credenze di cucina, guardare le sue stoviglie e decidere, di punto in bianco, di chiamarle “props”? Suvvia, non sarei credibile… E poi qui si offenderebbero tutti se gli dicessi che questa non è più casa nostra ma “un set per foto food“…

Numero tre: mi piace osservare il variegato “universo food” da qui. Non sono un eremita, ma la dimensione che preferisco è quella della mia piccola cucina sui tetti, con il passavivande aperto sul mondo e gli “amici di penna e di fornelli” che vanno e vengono. Sarà la mia pigrizia, la mia inguaribile riservatezza, la perenne mancanza di tempo alle ore comandate… o forse un modo di concepire la cucina come dimensione in fondo intima, legata alle persone a cui si vuole bene. Che, estesa al blog, comprende tutti quelli con i quali sento di poter comunicare: insomma… pure voi.
Quanto alle occasioni mondane – perché un po’ di mondanità ci vuole, nella vita – quelle che trovo assolutamente irresistibili sono i mercati: sono “un’ammaliatrice di bancarellari” per dirla con Monsieur d’Aubergine, che si stupisce ogni volta di come nei posti più svariati ci sia sempre qualcuno che mi riconosce. Sono un po’ meno maliarda coi pr…

Se a tutto questo aggiungo che non trovo sexy gli chef di grido (il mio cuore batte piuttosto per i cuochi della domenica), che non vado in visibilio per gli ingredienti introvabili (mi ricordano sempre la febbre dei tulipani nell’Olanda del Seicento…), che le mode mi vanno un po’ strette e mi emozionano invece tutte le situazioni “no logo” (tipo: sontuose trattorie da camionisti o bistrot parigini con quattro tavolini quattro ma la cucina a vista… e la macchina fotografica a casa), ecco delineato il profilo della perfetta dilettante.

Una che ama cucinare e raccontare. Che a fatica riesce a fotografare (e solo perché questo è in fondo un altro modo per raccontare). Che non si rassegnerà mai a chiamare con asettico distacco “props” i piatti sbeccati e i lini vecchi di casa (dovessero cascarmi addosso tutte le pentole la prossima volta che apro la credenza). E che non è altro che una vecchia ragazza curiosa del mondo, alla quale questo piccolo blog ha offerto una straordinaria occasione di incontro con gente che mai avrebbe pensato di conoscere.

autunno: sorbole

Adesso è quasi l’alba e tra poche ore c’è un aereo che mi aspetta. Stavolta infilerò nella sacca il portatile, un paio di chili di scartoffie, un quaderno di appunti, le mie nuove ballerine di velluto, e… un cestino di sorbole! Le ho incontrate stamattina, mentre correndo tornavo a casa.
“Che sapore hanno?” ho chiesto al fruttivendolo
“Un po’ di pera e un po’ di mela… Ma non le mangi adesso: se non diventano marroni sono peggio di un kaki acerbo!”
Mi ha vista pensierosa. “Ma se non sa di cosa sanno, perché le vuole?”
“Perché sono bellissime…”

Uno scatto e via: ve le volevo far vedere. Prima che finiscano spiaccicate tra i fogli e le ballerine, o che me le sequestrino in aeroporto (immagino già la scena al controllo bagagli).
Stavolta mi scuserete: solo sorbole immangiabili e nemmeno una ricetta. Ma avremo modo di rifarci. E poi… ci sarebbe un piccolo segreto del quale dovrei mettervi a parte. Ma questo è un altro post (prometto: con ricetta). E un’altra alba…

Saluti e baci (… e sorbole),

S.