Una torta di datteri per il tè di Natale

http://www.fragoleamerenda.it/author/sabrine/

“Ecchèccifà lei qui?!?” grida la portinaia con occhi spiritati, sporgendosi dallo spioncino della guardiola.
“Ho perso l’aereo…”
“Poooverine!!” urla, agitando le mani all’altezza delle guance rubizze, prima di spiaccicarle con uno schiocco disperato sulla bocca.

L’austera portineria del palazzo pulsa di inusitati bagliori: catene di palline a tinte fluo, stelle di plastica spruzzate di porporina, angeli di polistirolo con ali che devono esser costate lo scalpo a più di un’anatra (tutte piume vere, ma bluette…). Tralci di led con effetti speciali a intermittenza pendono dal soffitto a cassettone. Cordate di Babbi Natale vanno all’arrembaggio dei fregi degli stipiti e scalano la cassetta delle lettere.
Un presepe, con sfondo di carta polverosa recante l’effigie del Vesuvio, occupa l’intera nicchia sotto il finestrone. In attesa che il Bambinello trovi alloggio nella mangiatoia (mai prima di mezzanotte, sennò guai!), è come se tutti – angeli, Babb’e Nadal (come li chiama lei), pastori e contadine con le ceste colme di frutta in testa – si fossero dati appuntamento per un ballo di Carnevale in stile carioca.
“E adesso come fa?” mi dice con sentita commiserazione. “Cellà da mangiare?!?”
“Ho il frigo vuoto. Farò un salto dal macellaio…”
“Ommadonne santissime!” sento in lontananza, mentre imbocco lo scalone. E sorrido all’idea che a esser chiamate al plurale adesso siamo in due: io e la madre del Bambinello.

Così ha avuto inizio il mio Natale a rovescio, tutto il contrario di quello che uno s’immagina debba accadere. Monsieur e Principessa a un aereo di distanza, Polpetta con mamma e papà tra le nevi, e io in una casa diventata enorme all’improvviso. Nessuna possibilità di mezzi alternativi, a meno di non scomodare renne e slitte, le quali avranno pure rotte dedicate ma la notte del 24 lavorano a ritmi da far impallidire persino quelli di Amazon.

Ho deposto i bagagli, ho riacceso le luci dell’albero, poi tutte le ghirlande, e ho guardato l’orologio: le due del pomeriggio. Della vigilia di Natale…

La distesa di tetti oltre i vetri della cucina luccicava di gelo, anche se c’era il sole. Un filo di fumo usciva da un camino del palazzo di fronte, uno solo, segno evidente che se n’erano andati proprio tutti.
Deserta la mansarda dell’architetto solitario che la sera cucina agli stessi orari miei: si fa sempre tante insalate, e la vinaigrette con la frusta (lo vedo benissimo, perché il vetro spiovente della cucina è proprio sul suo piano di lavoro, e ormai ci salutiamo da una finestra all’altra).
Svaniti gli studenti del terzo piano, quelli che organizzano cene con la pizza la notte prima degli esami, e che lasciano le scarpe sul davanzale quando ospitano a dormire le ragazze.
Persino l’appartamento al piano sottostante, adibito a garçonnière di un borioso in doppiopetto dai capelli di un rossiccio-coda-di-volpe che fa pendant con il giallo-stoppa della signorina coscialunga alla quale si accompagna, era privo di segni di vita (non solo amorosa).

La via era silenziosa come non mai, vociare della portinaia a parte: quando la signora del piano di sotto va “a Brusselle”… via libera! Tono di voce da vicoli di Spaccanapoli, sigarette fumate senza sotterfugi (la puzza si sente lo stesso, ma lei è convinta che un orrendo spray al pino la camuffi), grembiule sbottonato. E in occasione del Natale, fritto di capitone e addobbo libero: nel senso che le luci da Carnevle carioca le monta in anticipo, ma non le accende finché quella non se l’è portata via il taxi, destinazione aeroporto.

Mi sarei accasciata sul divano, se avessi dato retta a quello che provavo, ma ho pensato bene di dar retta a quello avrei desiderato provare: serenità. A prescindere dalle incresciose circostanze… E allora da dove si comincia, quando la situazione pare senza soluzione? Dalle cose essenziali, quelle così elementari da non richiederci neanche un pensamento.

Cinque minuti più tardi ero dal signor Vittorio, proprio quello che avete conosciuto in versione stupefatta dinanzi al cane a dieta di finocchi, a pagina 66 di “Finalmente Natale!”.
“E che ci fa lei qui?!?”
“Ho perso l’aereo…”
“Ooooh!”
“Non dica nulla. E mi dia le cose più buone che ha.”
Non è che ci fosse rimasto molto, alle tre del pomeriggio della vigilia di Natale. Tutti avevano già ritirato capponi e capretti ordinati per tempo, galantine, insalate russe, tartine, paté, fois gras…
“Non si preoccupi, signora: ci ho le mie riserve, cosa crede?” e con una strizzata d’occhio di quelle che gli scoprono tutta la dentiera s’è avventurato nel retrobottega.
Ne è uscito un quarto d’ora dopo con un piccolo bottino che per me valeva oro: due fette di sontuosa galantina di pollo (“Gelatina vera, eh? fatta col brodo, mica con le cartine!” e un’altra strizzata d’occhio con vista sulla dentiera), tre tartine gelatinate con paté di fagiano, due medaglioni di fois gras (“Ci dò pure il pambriosc, ma me lo scaldi, eh?”), e quattro grosse escargots ripiene da fare invidia a un oste di Borgogna (“Questo bianco che vede è tutto burro con le erbe, me le metta cinque minutini in forno, e non si preoccupi: la dieta dopo la Befana!”).

Un senso di profonda beatitudine spingeva oltreconfine la tristezza: il Natale tornava a sorridermi con la smagliante dentatura posticcia del signor Vittorio.
“Il vino ce l’ha, vero?”
“Ho la faccia di una che non ha una riserva in casa?” e stavolta l’occhio gliel’ho strizzato io, ma senza poter ricambiare il panorama odontoiatrico. “Buon Natale! E grazie…”
“Buon Natale signora! Vedrà che mangia bene.”

Non tradisce mai, il signor Vittorio: come potrebbe, uno che ha iniziato a fare il macellaio a sei anni e lo fa ancora con passione? Tornata a casa ho tenuto fede alla promessa, e ho stappato per tempo una bottiglia seria: quel piccolo bottino di meraviglie se la meritava, e io pure.
Ho apparecchiato con i piatti più belli e le posate della festa. Tutti i bicchieri che servono, e tutte le candele di cui sono capace, che non è detto che servano ma scaldano l’atmosfera e – soprattutto se uno è a Natale da solo – funzionano da tonico dell’umore. E già che c’ero, e ne avevo trovata una piccola scatola dello stesso grigio ghiaccio (ci ho anch’io le mie riserve, cosa credete?), ho acceso tutti i candelabri sul camino. Diciannove…

Ho messo su una lista di Spotify, da Michael Bublé a Frank Sinatra, passando per Aretha Franklin. E pure Bob Dylan, che – anche se pochissimi lo sanno – fa tanto il rude ma un disco di canzoni di Natale l’ha fatto pure lui.
E ho messo sotto l’albero un pacchetto con un piccolo regalo, perché non s’è mai visto un Natale senza nemmeno un pacchetto, anche se uno lo trascorre in perfetta solitudine.
La carta era quella del negozio più colorato del quartiere, uno di quelli per signore che non hanno paura di andare in giro abbigliate come aristo-pappagalle, o scicchissime clown se preferite. Non mi ero avventurata oltre un paio di calzine di lamé dorato che, a ben pensarci, avevano un significato chiarissimo. Io, che non porto calze nemmeno nel gelo dell’inverno e faccio disperare mia madre (“Ti verrà una polmonite!”) perché mi ostino a girare con i piedi nudi infilati nelle slippers di velluto, avevo sentito il bisogno di un paio di calzini: dorati quanto vi pare, ma pur sempre calzini. Un simbolo di calore, di protezione, di intimità. Direi che non c’è altro da aggiungere.

Ho cenato a suon di musica, sorseggiando il mio vino. Le lumache non mi hanno fatto rimpiangere di aver acceso il forno solo per loro, e la gelatina del signor Vittorio era una delizia. Le candele spandevano una luce tremula piena di magia, le ghirlande punteggiavano le stanze di piccole stelle. La chat di famiglia (essenziale, per gente seminomade come noi) era in piena attività: in tivù davano un vecchio film di Natale, di quelli che ci guardavamo in quattro sul divano quando i ragazzi erano bambini. L’abbiamo rivisto tutti, in tre città diverse, per sentirci più vicini.

Quando si è fatta mezzanotte, ho sentito che mi meritavo una fetta di un qualche dolce natalizio (si è mai visto un Natale senza un dolce?), così ho aperto uno straordinario panettone al cioccolato arrivato in dono da un amico armeno-libanese. E se vi state chiedendo come fa un libanese ad intendersene di panettoni straordinari, vuol dire che non ne sapete abbastanza sugli armeni e sulla loro capacità di conoscere ogni angolo del mondo…
Infine, ho scartato il mio regalo. Non era esattamente una sorpresa, ma è stata pur sempre un’emozione, la mia prima volta alle prese con un Natale arditamente sui generis.

E’ stato a quel punto, quando la conclusione naturale sarebbe stata andarsene a letto, che invece ho acceso il Mac. Non so esattamente cosa sperassi di trovarci, ma posso dirvi cosa ci ho trovato: un paio di mail che mi hanno lasciata senza parole (e anche se ne avessi avute, a chi le avrei dette?… a Bob Dylan?)

La prima era di un signore che ultimamente si è messo in testa di farmi da coach, non fa che ripetermi che devo tornare a scrivere, e mi fa molto arrabbiare perché sa benissimo che non ne ho il tempo: “Contavo sul tuo post natalizio, mia adorata Sabrine. Pensavo di trovarlo oggi, e scusa se te l’ho chiesto: non l’ho fatto da agente, ma come Monsieur d’Aubergine. … (la frase seguente è omissis, ma fidatevi: è bellissima).

L’altra era di Claudia. “Questa, cara Sabrine, è idealmente una mail a quattro mani, come il torrone con mandorle e noci (…) che ho preparato per Natale, e che è stato la mia sfida del 2017. Sfida doppia,  dato che il mio complice è stato (…) un bambino di dieci anni, a dispetto delle tue raccomandazioni. La sfida l’abbiamo vinta: il torrone con cui abbiamo impiastricciato la cucina e che (…) mi ha permesso di continuare a guardare il Natale con occhi incantati, è pronto: un po’ appiccicoso forse, e con la copertura di cioccolato non proprio perfetta, ma buonissimo, così buono che persino P., notoriamente diffidente di fronte ad ogni novità, l’ha apprezzato.
Buon Natale, dovunque tu sia, in cucina, con la tua nipotina, alle prese con i biscotti, o su un aereo…
(Seguiva foto del torrone succitato, in compagnia di adeguata illuminazione a base di candele).

Buon Natale dovunque tu sia… e io ero a casa, da sola, con un panettone al cioccolato strepitoso ma senza nessuno a cui poterne offrire una fetta. … ?!? … Nessuno? … Sbagliato: non ero più sola, dopo quelle mail. C’era questa piccola cucina. Anche a mezzanotte passata, era pur sempre la notte di Natale: potevo farcela.
Ho cercato una ricetta di quelle che non ero riuscita a far entrare nell’ultimo libro (ci ho anch’io le mie riserve, cosa credete?), e ho deciso che per stavolta poteva andare: tra amici non c’è sempre bisogno degli effetti speciali, bastano le cose semplici se il momento è di quelli complicati.

Perciò stavolta vi dovete accontentare: è una torta color dello zucchero scuro, che profuma di spezie, cioè di Natale. La ricetta è di Gudrun (citata a pagina 28 del libro che ormai ben conoscete), e contende il podio al concorso “La torta speziata perfetta per un tè bollente” a quella di sapa e noci di Paulina. Fatela se appartenete al genere “spice oriented”, cioè se vi piace il pain d’épices. Altrimenti prendetela come una cartolina di Natale.
So bene che ce ne sono di più belle, più sfolgoranti e piene di colore. Ma questa l’ho scritta solo per voi: non c’è nessun altro in questa casa, stasera, quasi nessuno nel palazzo, né nel palazzo di fronte. Per strada qualche raro passante, di cui sento i passi felici e stanchi da quassù. Niente macchine. La città, deserta e bellissima, è tutta per me. Per me è stata questa notte, trascorsa lasciando saltellare le dita sulla tastiera, e dunque in vostra compagnia. E per me è quest’alba limpida, senza traccia di camini fumanti all’orizzonte.

E adesso che la caffettiera canticchia quel suo blob, blob, blob che mi fa lo stesso effetto di Bob Dylan (cioè m’incanta), è con voi che condivido la piccola felicità della mia colazione di Natale. Niente bluff: la torta speziata della foto è di più di un anno fa (per i carboidrati ho dovuto attingere al panettone di fonte armeno-libanese). Ma il tavolo è proprio qui: candele consumate comprese…

L’ultima stella mi saluta da oltre il vetro. E se fosse la mia piccola cometa?  In fondo mi ha guidato nella notte fino a voi. C’è sempre un altro modo possibile di guardare alle cose della vita: se non avessi perso quell’aereo, tanto per dirne una, non sarei riuscita a trovare il tempo di farvi gli auguri.

Perciò Buon Natale, amici miei. E ovunque e con chiunque voi siate, sotto i cieli stellati (anzi – data l’ora – ormai abbondantemente luminosi) di questo piccolo bizzarro mondo, cercate sempre di essere felici. Come lo sono stata io, stanotte, in vostra compagnia.

Saluti e baci! (insonni e natalizi),

S.

LA TORTA SPEZIATA DI DATTERI

INGREDIENTI
(per uno stampo da 18 cm di diametro)

datteri denocciolati: 150 g 
tè nero bollente: 150 ml  
farina integrale di segale: 200 g
cannella in polvere: 1 cucchiaino
chiodi di garofano in polvere: 1 cucchiaino
semi di cardamomo ben pestati (o di cardamomo in polvere)1 cucchiaino
miscela quattro spezie: 1 cucchiaino
cacao amaro: 1 cucchiaino
bicarbonato: 1 cucchiaino
sale fino: 1 pizzico
zenzero fresco: un pezzetto da circa 3 cm
soft dark brown sugar: 150 g  (più 2 cucchiai per la finitura)
uova: 2 (grandi)
burro: 80 g
panna acida: 100 g

Accendete il forno a 180°C. Imburrate e infarinate lo stampo (se ne usate uno a cerniera, rivestite il fondo di carta forno e imburrate i bordi).

Preparate un tè forte con 150 ml d’acqua.

Tagliate i datteri a rondelle, metteteli in una tazza e copriteli con il tè bollente. Lasciateli in infusione per almeno mezz’ora (o anche di più se vi fa comodo: possono tranquillamente passare la notte a mollo senza danno).

Quando saranno pronti, vale a dire morbidi e profumati di tè, lavorateli con il minipimer fino a ridurli in crema.

Mettete in una ciotola la farina di segale, le spezie, il cacao e il bicarbonato setacciati, e il sale. Mescolate bene con una frusta a mano e fate un incavo al centro.
Pelate lo zenzero, sciacquatelo, asciugatelo e grattugiatelo direttamente nella ciotola.

In un’altra ciotola montate le uova e lo zucchero con le fruste elettriche: ci vorrà un po’ più del solito, perché lo zucchero scuro ha granelli più grossi e ha la tendenza a formare grumi. Lavorate a velocità bassa, schiacciate con la punta delle fruste i grumi più grossi, e continuate finché i granelli di zucchero non si sentono più e il composto è gonfio, spumoso, e color caramello (cioè ben più chiaro di quando avete iniziato).

Fate fondere il burro a bagnomaria e lasciatelo intiepidire; aggiungetelo al composto di zucchero e uova, con la panna acida e la crema di datteri, e lavorate per amalgamare il tutto. Rovesciate nella ciotola delle farine, mescolate con attenzione prima di azionare nuovamente le fruste (altrimenti vi ritrovate dentro una nuvola di farina alle spezie), e poi lavorate per una decina di secondi finché il composto non è omogeneo.

Versate nello stampo, spolverizzate con lo zucchero (è appiccicoso, non riuscirete a distribuirlo uniformemente con le dita, ma vi assicuro che quei piccoli crateri zuccherosi in superficie sono deliziosi…), e infornate.

Cuocete la torta per circa 50 minuti, ma non fatela asciugare troppo. Tastatela in superficie dopo i primi 40: dev’essere morbida al tatto, lievemente gommosa.

Lasciatela raffreddare 10 minuti nello stampo, prima di sformarla su una griglia da pasticciere. Dura qualche giorno, e si mantiene morbida se la tenete in una scatola di latta. Se una scatola di latta per le torte non l’avete, e in casa vostra non alberga neppure una campana di vetro, sappiate che il miglior sostituto dell’una e dell’altra è una ciotola di metallo rovesciata. E per favore non ditemi che una ciotola di metallo per impastare o fare le torte non ce l’avete…