Il metodo Pan di Spagna

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Pan di Spagna di Sabrine d'Aubergine

“Ma dove sei stata?!?” mi ha detto mio marito aprendomi il portone.
“In una fabbrica di pane abbandonata: e ho trovato le porte che mancavano!” ho risposto, togliendomi una ragnatela dai pantaloni.

Si dà il caso che – al netto dell’imminente trasloco e di svariate altre attività riconducibili alla fattispecie “lavoro”- negli ultimi tempi io stia seguendo anche la ristrutturazione di parte di una vecchia casa, uno dei poli attorno ai quali ruota la mia vita logisticamente alquanto effervescente. Nulla di trascendentale… se non fosse che il tutto si svolge in un posto di gente simpaticamente bizzarra, nel quale il tempo scorre più lento che altrove, il lavoro risponde a logiche imperscrutabili e ognuno ha un fuso orario tutto suo.

Io non sarei per mia natura intimamente asburgica: ma non sopporto i numeri a vanvera. Così l’altro giorno, alle prese con l’ennesimo conteggio di porte diverso dai precedenti (ormai una specie di estrazione del lotto…) ho chiesto di andare a verificare di persona quante ce ne fossero, in quello che mi descrivevano come un magazzino.

Siamo arrivati, io e l’impresario che mi acccompagnava, in questo posto che era una fabbrica di pane in disuso: un capannone con dentro impianti e cose d’ogni genere, dalle cabine di lievitazione a vecchi mobili orientali e scatoloni di scartoffie. Le mie porte erano dietro un nastro trasportatore lungo dieci metri e alto due: le ante addossate fitte a una parete, incastrate tra loro e frammiste a pezzi di stipite e a frattaglie di serramenti di varia provenienza.

“Signora, stia tranquilla: almeno due ce ne sono…” mi diceva lui, soppesandole da lontano con lo sguardo.
“Ma se ce ne servono tre, scusi!? E non di ante: di porte. Perciò ne conti sei, per favore…” e intanto mi avvicinavo a quell’ammasso, ridotto a condominio per uccelli e insetti di varie specie .
“Dia retta signora, non le possiamo contare: bisognerebbe arrampicarsi lassù… non mi pare il caso…”.

A me invece pareva proprio il caso: e mi ci sono arrampicata, in cima a quel macchinario. Facendo leva su una poltrona da ufficio con rotelle (“Almeno me la tenga ferma col piede!” “Ma lei salga piano, però…”), infilando la mano in un anfratto fuligginoso (“Ma lì c’erano i residui di farina bruciata!” “E non me lo poteva dire prima, scusi?”), e rischiando di scivolare sul retino del nastro trasportatore (“Signora: per fortuna la corrente è staccata!” “Fa pure lo spiritoso, adesso?”).

Vi dirò: un’avventura niente male per una che non ha tempo per la palestra. E quando sono arrivata in cima alla mia vetta, mentre squarciavo a mani nude un groviglio di ragnatele e toccavo finalmente quelle porte, mi sono sentita Indiana Jones: senza cappello e senza frusta, ma con giacchetta blu e borsa vintage a tracolla.

E’ stato in quell’istante che ho sentito una voce estranea pronunciare un imbarazzato “Oh! Scusate…”.

Era il rappresentante di birre al quale è affittato metà del capannone. Insospettito dai rumori era venuto a dare un’occhiata: si è trovato davanti un signore con abito di velluto scuro impolverato e una signora carponi in cima a un nastro trasportatore per pagnotte, altrettanto impolverata, ragnatelata, e pure un poco scarmigliata. Ora – anche a non voler essere pettegoli – cosa avreste pensato voi? Quantomeno di trovarvi davanti a due completi squinternati…

Mentre tornavamo in città, il maestrale strapazzava folti ciuffi gialli e violetti, nuvole scure si addensavano sui pascoli e le poiane disegnavano cerchi nell’aria.
“Signora, nei prossimi giorni vedrò di chiamare il camioncino per le sue porte… Ma guardi che bello laggiù!” e la macchina sbandava briosa a ogni scorcio degno di nota.
“Questa terra è un incanto. Però io chiamerei il camoncino adesso, sa? Non vorrei le passasse di mente, dopo tutta quella fatica…”.

Quando sono arrivata a casa la piazza ferveva di vita: era l’ora dell’aperitivo. Io avevo voglia soltanto di una doccia e di qualcosa che mi trasportasse lontano, possibilmente più a nord. Mi sono preparata un té: bollente. E ho pensato che mettermi a montare tuorli e albumi fosse un’accettabile alternativa non-violenta agli improperi, per smaltire il nervoso.

Mentre recuperavo l’armonia con il mondo, solo un pensiero mi attraversava di tanto in tanto la mente: cosa mai racconterà il birraio?

Perciò questo non è soltanto un post, ma un appello: chiunque conosca un venditore di birre e lo senta raccontare la stravagante storia di una signora arrampicata in cima a un macchinario in una vecchia fabbrica di pane, si premuri, per favore, di correggere eventuali errate conclusioni. Spieghi che mi conosce bene – anche se solo di penna e di fornelli – e che sono in fondo una vecchia ragazza di sani principi. Con una certa inclinazione a non darsi per vinta…

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Del Pan di Spagna: che pare una ricetta e invece…

Il Pan di Spagna non è un ricetta: è un metodo. Perché gira gira, gli ingredienti quelli sono: uova, zucchero, farina e qualcosina per aromatizzare il tutto a piacimento (acqua di fior d’arancio, vanillina, scorza grattugiata di limone, o qualunque altro profumo si sposi bene col vostro umore e il vostro progetto culinario).
C’è chi sostiene che l’equilibrio perfetto tra ingredienti lo si ottenga solo pesando le uova, ma a me l’idea di mettere sulla bilancia tuorli e albumi fa passare la voglia di accendere il forno.
Però mi impegno su altri versanti: scelgo uova fresche e di galline allegre (cioè allevate terra), monto gli albumi a mano (è come per le meringhe: a me vengono perfetti solo così…), e asciugo in forno la farina perché perda ogni traccia di umidità (l’idea non è mia, ma di un tale Pellegrino Artusi).
Ma il mio segreto per un Pan di Spagna leggero è quello di aggiungere la farina alternandola agli albumi montati: un quarto di farina, un terzo di albumi, un quarto di farina, un altro terzo di albumi, e così via. Non è per il gusto di sovvertir le regole (che vorrebbero la farina aggiunta solo dopo gli albumi). E’ che se ce la metto alla fine, quando l’impasto è una nuvola spumeggiante e lieve, per quanto la setacci e mescoli con delicatezza la forza di gravità ha sempre la meglio: il composto tende ad “appesantirsi” e… addio nuvole.

IL METODO PAN DI SPAGNA

INGREDIENTI
(per uno stampo da 26 cm di diametro)

uova: 6 (medie)
farina 00: 160 gr
zucchero semolato fine: 160 gr
acqua di fior d’arancio: 1 cucchiaio (o il profumo che volete voi…)

Tirate fuori le uova dal frigo in anticipo (gli albumi a temperatura ambiente montano prima).

Accendete il forno a 170° e foderate di carta forno la base di uno stampo a cerniera da 26 cm, imburrando e infarinando i bordi.

Passate in forno la farina per 5 minuti (fate attenzione, perché non deve scurirsi…) e lasciatela raffreddare.

Separate i tuorli dagli albumi (facendo attenzione a che questi ultimi siano perfettamente privi di tracce di tuorlo, altrimenti scordatevi di riuscire a montarli).

Montate i tuorli e lo zucchero con le fruste elettriche per almeno dieci minuti. Iniziate a media velocità e aumentate il ritmo solo verso la fine: devono più che raddoppiare di volume e diventare quasi bianchi.

Montate gli albumi a neve fermissima (io li monto a mano con la frusta d’acciaio, e se volete sapere come faccio date un’occhiata alla mia “Summa Meringhiana”…).

A questo punto riprendete la ciotola con il composto di zucchero e tuorli, aggiungetevi l’acqua di fior d’arancio e un quarto della farina passata al setaccio e lavoratelo ancora un po’ con le fruste elettriche.

Deponete le fruste e armatevi di una spatola di gomma (ce l’avete, vero?). Aggiungete al composto un terzo degli albumi e incorporateli con tutta la delicatezza di cui siete capaci: movimenti ampi e lenti, nel minor numero possibile, dall’alto in basso.

Proseguite aggiungendo un altro quarto di farina (poca alla volta e sempre setacciandola) e poi un altro terzo di albumi e proseguite così: l’ultima aggiunta sarà di farina. Abbiate cura di continuare a montare gli albumi se vedete che sul fondo della ciotola c’è ancora del liquido.

Rovesciate il composto nella tortiera, livellatelo e infornatelo. Abbassate il forno a 160° dopo una trentina di minuti se vedete che la superficie si colora troppo. Cuocetelo per circa tre quarti d’ora (o poco più), ma guardatelo a vista: il Pan di Spagna ha bisogno di essere accudito come un neonato cagionevole. Lasciatelo nel forno spento per cinque minuti, poi aprite lo sportello gradatamente e lasciatelo dentro per un altro po’ prima di sformarlo e di metterlo ad asciugare su una gratella da pasticciere.