Il fornaio della domenica: lievito, macchie d’inchiostro & nuvole di farina

Il fornaio della domenica: il pane fatto in casa raccontato ai principianti

La pioggia picchiettava sui tetti di là dai vetri al ritmo di danza delle mie dita sulla tastiera: plic, plac! ti-tic, ti-tac! Era un meraviglioso pomeriggio di gennaio, con il cielo della mia sfumatura preferita (grigio-promessa-di-temporale, ed era una promessa mantenuta), e un freddo artico che aveva fatto desistere dai tacchi le signore. Dalla strada arrivavano solo rumori di suole spartane – ciac! ciac! – e di pozzanghere, quando ad attraversarle erano le ruote di una macchina… squash!
Dalla mia scrivania potevo godere di una vista, diciamo così, indiscreta, anche se involontaria. Al riparo di un grosso comignolo, forzatamente a riposo dalle consuete incursioni di caccia nei cortili del quartiere, la coppia di cornacchie del palazzo di fronte si dedicava a pratiche amorose del genere a cui ogni coppia vorrebbe dedicarsi, in un pomeriggio di pioggia e di gelo.

Così, nell’ora magica in cui la luce viene ad accarezzare le mie finestre anche se trova sulla sua strada un temporale, fu osservando quelle sfacciate dirimpettaie nella loro naturale impudicizia che il mio progetto prese corpo. E nonostante la pioggia e il cielo grigio, tutto mi apparve chiaro all’improvviso: se quella che mi frullava in testa ormai da un po’ era in fondo una storia d’amore, era proprio così che dovevo raccontarla…
Mezz’ora dopo, le dita saltellavano sui tasti tracciando il mio itinerario di viaggio nelle lande sconfinate del regno del pane. Un viaggio scandito da tappe ben precise – una per ogni tipo di lievito – perché il lievito funge da metronomo: è al suo ritmo che viaggia la farina.

Quella tra lievito e farina è una passione travolgente, che non conosce cedimenti: dura da millenni, e a qualunque latitudine si incontrino finiscono sempre per dar vita a una forma di pane. Ne hanno prodotte così tante, nel corso della storia, che non esiste civiltà umana che non ne abbia avuta almeno una tutta sua. Eppure, a sentire quel che si dice in giro sul suo conto, pare che farselo a mano nel forno di casa sia ormai un’impresa temeraria, o almeno non proprio alla portata di tutti. Certo, ci si può sempre imbarcare in un percorso iniziatico da sacerdote egizio e farsi cooptare in una di quelle fratellanze per adepti della Purezza Assoluta (ce ne sono parecchie anche a sfondo pagnottesco), presso le quali la detenzione di farine non macinate in casa o il consumo di qualche grammo di lievito di birra comportano macchie indelebili sulla fedina penale. Ma se uno non ha la vocazione da talebano, e non intende trasformarsi in un fornaio perché una vita normale è già complicata di suo, può permettersi il lusso di un pane fatto in casa fatto come dio comanda?

Così ho gettato il cuore oltre l’ostacolo e ci ho voluto provare: raccontare il pane a chi non l’ha mai fatto, e a chi non osa nemmeno immaginare di mettersi a impastare, ai principianti (per i quali il mio cuore batte da sempre, incondizionatamente) e a chi vuol farlo senza complicarsi la vita (categoria alla quale sento di appartenere). E sono iniziate le mie avventure commestibili, stavolta a base di lievito e farina…

Sono stati trenta mesi di studio e sperimentazioni, emozionanti e avvincenti come un viaggio in un pianeta lontano. Ho creato lieviti, li ho allevati, li ho nutriti e li ho affamati (non ho aspirazioni da Crudelia De Mon, ma volevo capire se sono davvero dei neonati cagionevoli, e… no, non lo sono affatto!). Ho provato tecniche che non conoscevo, pre-impasti, ammolli, sbollentature. Ho scoperto ricette identiche in posti lontani. Ho scartabellato ricettari vintage, disciplinari per fornai vecchi di secoli, e trattati di arte bianca in ogni lingua a me anche lontanamente conosciuta, compreso l’improbabile esperanto del traduttore di Google (con gli ideogrammi e gli idiomi vichinghi non c’era altra soluzione…). In estrema sintesi: mi sono divertita!

Quanto alla domanda da cui tutto aveva preso il via – Il pane è davvero così complicato da fare? – la risposta era regolarmente quella che avevo sperato: no! (punteggiatura compresa…). Così continuavo a provare e riprovare le ricette, le variazioni appuntate diligentemente sulle mie matrici a più colonne, sempre con un obiettivo: semplificarle e renderle comprensibili a chiunque. E quando un impasto o un intreccio richiedevano troppe parole, chiedevo al cavalletto di arrampicarsi sul vecchio tavolino da bistrot (vi ricordate? è quello tutto scorticato delle foto di “Fragole a merenda”…), ormai pensionato causa zoppìa, e mi mettevo davanti all’obiettivo: quello della macchina fotografica…

E’ finita con quattro pile di fogli da quaranta centimetri ciascuna, quattro quaderni di appunti in bella copia, e centinaia di scatti fotografici (parte dei quali ottenuti grazie a una vecchia tastiera che mi vuole così bene da accettare comandi di genere… pedestre! Tutti i dettagli del dietro le quinte a pagina 90). E anche se nella foto di apertura li vedete un tantino scapigliati (hanno viaggiato senza sosta tra cucina e scrivania), al momento opportuno si sono magicamente infilati tra due copertine di cartone, seguendo un ordine preciso: l’indice ispirato da quelle due cornacchie svergognate… E sono diventati un libro. Si chiama “Il fornaio della domenica” e da oggi è in libreria. A cinque anni e un giorno da “Fragole a merenda”, che aveva un capitolo proprio con lo stesso titolo: era scritto nel destino, prima ancora che sulle ali nero pece delle mie dirimpettaie licenziose, che questa storia dovesse continuare.

Spero di incontrarvi tra queste pagine (352, per l’esattezza), nelle quali – grandissimo passo, per la sottoscritta! – stavolta mi vedrete all’opera, dagli avambracci in giù. Non aspettatevi quegli scicchissimi outfit da cuochi alla moda, del genere grembiule di lino annodato con graziosa nonchalance: io il grembiule non lo so usare, cucino e scrivo in jeans e marinière… E siccome quelli che vanno a spasso tra le mie pagine è come se ce li avessi proprio qui, in questa piccola cucina, le foto le ho scattate sul tavolino delle mie colazioni e delle nostre cene (il tavolo da pranzo sta ancora vivendo l’ebbrezza di una vita diversa dalla sua, metà bancone di panetteria e metà scrivania). Perciò se certe presenze ricorrono (taglieri, stampi, coltelli, strofinacci) è perché questa è una cucina vera, mica un set fotografico in un negozio alla moda! (mi ci vedete? mi sembrerebbe di raccontarvi una bugia…).

A questo punto ci vogliono dei ringraziamenti, e non vi stupirete se i primi della lista, ancora una volta, siete voi. In due anni senza nemmeno un post, siete stati capaci di farmi arrivare pensieri, messaggi e regali preziosissimi, e sempre quando le riserve di energia erano ridotte al lumicino. Se sono arrivata alla fine di un percorso tanto impegnativo è perché immaginavo la gioia di ritrovarci di nuovo qui: grazie per non aver mancato l’appuntamento.

Grazie a Guido Tommasi, che mi ha consentito ancora una volta di fare il libro che volevo. Ho faticato un po’ a fargli digerire le ciliegie in quarta di copertina, in un libro che uscirà tra le strenne e che parla di pane, ma alla spiegazione che il pane si fa tutto l’anno, che c’è anche una ricetta di pane e ciliegie, e che le ciliegie sono pur sempre delle palline rosse proprio come gli addobbi di Natale… si è arreso!

Grazie a tutta la casa editrice: questo libro ha richiesto un lavoro di redazione e di impaginazione tutt’altro che facile, ma siamo sempre riusciti a riservare uno spazio alla leggerezza e all’allegria. Anita sta ancora ridendo per la nostra diatriba sulle mammelle delle mucche, che io ho insistito per chiamare “tette”, e Carolina ha fatto lavori di alta sartoria, dedicandosi ad allungare le maniche delle mie mariniére per la gioia del tipografo.

Quanto al versante familiare, mia madre è ormai convinta che voglia suicidarmi scrivendo un libro ogni due anni, e a nulla valgono le mie rassicurazioni circa il fatto che esistono metodi assai meno faticosi per passare a miglior vita. Devo ammettere che sono inaffidabile: le avevo giurato che di libri non ne avrei più scritti, e ad essere sincera gliel’ho promesso anche stavolta… con due dita incrociate dietro la schiena. Perciò vedete di rassicurarla voi, come potete. Sappiate che non è una che si arrende facilmente…

Il Piccolo Principe e Principessa sono stati fantastici: hanno retto alla moratoria dei pranzi di famiglia (per manifesta indisponibilità del tavolo), e con generose riserve di ironia mi hanno aiutato a sentirmi meno in colpa per questo mio correr dietro a storie commestibili. Polpetta ha scattato con me alcune  delle foto (capite perché non ce ne potremmo mai andare in un negozio alla moda?), e siccome stavolta non ha cancellato alcun capitolo direi che è stata bravissima. Nel frattempo è arrivata sua sorella, che è ancora troppo piccola per pigiare sulla tastiera del Mac, ma so che mi dovrò attrezzare per il futuro.

Monsieur ha provveduto alla mia esistenza in vita con straordinari piatti di vermicelli cacio e pepe, per i quali gode ormai di vasta e meritata fama. Stavolta si è lanciato anche nella preparazione di certe insalate di sua formulazione, che andrebbero benissimo per la coppia di nostre dirimpettaie, data la quantità di semi che riesce a metterci. Ma siccome continua a farmi trovare dei vini straordinari, e tavoli della colazione amorevolmente imbanditi, non posso che essergli profondamente grata: trenta mesi con una coinquilina in versione alchimista panettiere sarebbero duri per chiunque, e lui ha retto benissimo…

E adesso guardo le pile di fogli e i miei quaderni di appunti, e mi accorgo che c’è un piccolo spazio – piccolissimo, il minimo consentito – anche per un pizzico di emozione. Del resto, questa è in fondo una storia d’amore: tra lievito e farina, tra me e la magia del pane che esce dal forno, e anche tra quelle due cornacchie che continuano a baciarsi incuranti della pioggia. Perché in quest’alba che ormai si è fatta giorno, il cielo è della mia sfumatura preferita, proprio come tre anni fa: grigio-promessa-di-temporale (ed è una promessa mantenuta…).  Non mi resta che augurarmi che tra queste pagine riusciate a divertirvi come è successo a me. La via della semplicità al pane fatto in casa regala emozioni, oltre che deliziose pagnotte. L’unico rischio che correte è di scoprire che anche in voi si nasconde un ammaestratore di lieviti e farine. Un gioioso, insospettabile, talentuoso fornaio della domenica..

Saluti e baci! (infarinati, lievitati e… sì, anche molto emozionati)

S.

POSTILLE

“Il fornaio della domenica” è disponibile da oggi in libreria, su Amazon e ovunque si vendano bei libri.

Dediche – Siccome a me piacciono le sorprese, e per nulla al mondo rinuncerei a scrivere una dedica personalizzata a chiunque la desideri, organizzeremo una di quelle piccole magie che non possono non esserci quando si avvicina Natale. Il nostro Editore si è rassegnato all’idea della gioiosa confusione che l’operazione dedica porterà in redazione, ma è stato felice di accontentarci. Da domani, l’e-shop della Guido Tommasi Editore vi consentirà di precisare tutti gli elementi utili alla vostra richiesta in un campo apposito. Mi raccomando: siate precisi! Io ho già una cartuccia nuova nella stilografica…

Grembiule – Mi corre l’obbligo di una precisazione: ne possiedo uno, dono di Franca, a deliziosi pois. L’ha fatto lei, con le sue mani, e me lo ha regalato in occasione di una presentazione al Salone del Libro di Torino. Lo conservo gelosamente.