Pane di ceci al golden syrup

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Pane di ceci al golden syrup

… Ehi!?! … c’è qualcuno? … E’ passato così tanto tempo dall’ultimo post che in questa mia cucina internettiana mi pare di sentire solo l’eco del silenzio.

Slap, slap, sguiiiishh… slap, slap, sguiiiishhh… Cosa sto facendo? Ultime pennellate alla libreria. Vi ricordate? … quella che si era ristretta come un maglione centrifugato. Adesso è diventata irrestringibile: ci sono volute delle ante nuove, due passate di pittura, una di cera e qualche tocco di mordente. Più una carteggiatina di quelle che fanno una polverina fine e sgarbata, che si infila senza permesso dappertutto.

Per casa c’è un odore da bottega di antiquario, che cerco di far svanire vaporizzando acqua di fior d’arancio e di gelsomino. Giro con un flacone per mano: uno spruzzo a destra, due passi, uno spruzzo a sinistra, altri due passi, e così via… una specie di danza rituale lunga quanto il corridoio. Per cinque minuti pare di stare in una serra in fiore, poi il profumo si fa via via più tenue, finché la cera non riprende il sopravvento. C’è però anche un lato positivo, in queste intemperie dell’odorato, ed è che quando mi scappa una sciocchezza posso salvarmi la faccia dicendo: “Dev’essere che la trementina mi dà un po’ alla testa…”

Ora, vi sembrerà che tutto questo non c’entri molto con la storia della pagnotta qui sopra, e vi capisco. Il legame è evanescente e impalpabile come i miei spruzzi di fior d’arancio e gelsomino… Ma mettiamola così: è sempre una questione di profumo. Più o meno gradevole.

C’è un locale, in una stretta via del centro storico, dove si mangia soltanto farinata. Qui la chiamano in altro modo ma vi garantisco che di farinata di ceci si tratta: come da ligure ortodossia. Io ci vado appena posso, in compagnia di un paio di amici: perché mi piace la farinata di ceci, perché mi piace l’intrico di stradine che devo attraversare per arrivarci, e perché mi piacciono i miei amici. Mi piace persino quel senso d’avventura che s’accompagna ad ogni nostra sortita da quelle parti… perché non è affatto scontato che una volta entrati nel locale la farinata ve la diano.

Se arrivate alle otto vi dicono che è presto, non hanno manco acceso le luci e si guardano bene dall’accenderle per voi. Se arrivate alle otto e mezzo la sala grande è già piena, e vi dicono che quella piccola è tutta prenotata: luci spente, accesso impossibile. Ma se decidete di prendervi un aperitivo e tornare un’ora dopo rischiate grosso: perché è probabile (soprattuto se piove o c’è la nebbia) che vi dicano che l’impasto è finito. Non resta perciò che presentarsi alle nove, e insistere parecchio perché vi diano un tavolo di quelli che si sono appena liberati: “Però dobbiamo sparecchiare…” vi informano, come se si trattasse della mise en place per il pranzo di nozze di William d’Inghilterra.

Vi fanno aspettare almeno un quarto d’ora per spianare sul tavolo un foglio di carta da pacchi bianco, sul quale depongono un mucchiettino di foglietti per ogni commensale e due boccette di succo di frutta riciclate in qualità di saliera e pepiera, con il tappo di latta sforacchiato alla bell’e meglio per formare una “S” e una “P”. Dovete essere degli attenti osservatori per cogliere la sottigliezza… L’apparecchiatura basic riequilibra il decor “esuberante” del locale: tralci di variopinti fiori di plastica e ghirlande di festoni si allungano dal soffitto alle pareti, si insinuano nei paraventi, e finiscono per avvinghiarsi a immagini sacre e profane, targhe vintage, orologi a cucù. C’è pure una collezione di quadri che Teomondo Scrofalo in confronto pare Van Gogh. Tutto deliziosamente fuori dai canoni… di qualunque genere siano i canoni vostri.

Ma la mia passione è la signorina che ci serve, apparecchiata – lei sì – con ogni sorta d’ornamento: rossetto vistoso, unghie con dei lustrini che ogni volta cambiano colore, gilet scollato per esaltare le forme, e berretto in lurex con visiera. Arriva grintosa e chiede “Cosa portiamo?”, sapendo già che la risposta non può che essere una sola. Allora noi, che non abbiamo alcuna intenzione di deluderla, ci scambiamo un rapido sguardo come per consultarci e poi all’unisono dichiariamo: “Farinata per tutti!”.

Si capisce benissimo che per lei tra una farinata alle cipolle e una con salsiccia intercorre un universo intero, e quelle che per noi sono solo sfumature a lei sembrano differenze abissali. Perciò, se siete appena titubanti tra due opzioni delle cinque disponibili, vi guarda spazientita come se foste indecisi tra un cinghiale arrosto e un consommé. Come a dire: “Prima di andare a cena fuori uno dovrebbe almeno chiarirsi le idee su cosa vuol mangiare…”

Quando la farinata arriva, unta e fumante su traballanti piatti di plastica, bisogna prenderla con le mani, poggiarla sul tovagliolo di carta e mangiarsela tenendola tra le dita con i foglietti più piccoli, scivolosi e tutt’altro che assorbenti. Ma ormai riesco a cavarmela: maneggio con destrezza persino le due boccette riciclate (le prime volte mi veniva da svitare il tappo…). Passiamo la serata ridendo come matti e parlando di un sacco di cose interessanti (il che, in una piccola città di provincia, garantisce l’ingresso di diritto nel palinsesto dei pettegolezzi estivi). Quando ce ne andiamo, il conto ammonta sempre a sette euro a testa: comprende coperto, birra, farinata, e pure una terribile puzza di ceci fritti e di cipolla che non c’è verso di levarsi di dosso se non infilandosi sotto la doccia.

L’ultima volta, forse perché l’unico tavolo libero era quello di fronte al forno, ce ne siamo usciti più puzzolenti del solito: tre grosse teglie di farinata con le gambe. Incubi ai ceci hanno popolato la mia notte: mi sono addormentata alla terza tisana, quando i primi gabbiani volavano già sulla piazza. Due ore dopo, mentre infilavo in lavatrice un maglione che pareva un cartoccio di patatine rancide, ho capito che la stagione della farinata era finita: troppo caldo, ormai… Ma non volevo archiviare l’annata con un cattivo ricordo: dovevo riconciliarmi con la farina di ceci.

Così ho impastato una pagnotta con una ricetta di quelle del mio archivio-teiera-di-latta: corretta con un po’ di golden syrup, perché il profumo della farina di ceci mi accompagnasse con dolcezza fino al prossimo autunno…

Saluti e baci (sotto un cielo violetto che è un incanto)

S.

PANE DI CECI AL GOLDEN SYRUP

INGREDIENTI
farina Manitoba: 400 gr
farina di ceci: 150 gr
malto d’orzo: 1 cucchiaio (bello abbondante…)
golden syrup(*): 1 cucchiaio (come sopra)
acqua: 250 ml
sale fino:
un cucchiaino
olio extra-vergine d’oliva: un cucchiaino
lievito di birra: 25 gr (un cubetto)

Sciogliete il malto d’orzo e il golden syrup in 200 ml di acqua tiepida (tenete da parte il resto), poi sbriciolatevi il lievito di birra, mescolate con forza e tenete da parte per una decina di minuti finché non si forma una schiuma compatta.

Miscelate le farine e il sale in una grande ciotola, fate una fossetta al centro e rovesciatevi il lievito. Aiutandovi con un cucchiaio ricopritelo di farina e lasciate riposare per mezz’ora, scoperto ma al riparo da correnti.

Quando lo riprenderete, vedretre i primi (timidi) segni di lievitazione. Mescolate con forza usando il cucchiaio e aggiungete a poco a poco l’acqua che avete lasciato da parte. Potrebbe non servirvi tutta: dovete ottenere un impasto da lavorare con le mani senza che vi resti attaccato (fate attenzione, perché la farina di ceci tende ad assorbire molta acqua inizialmente).

Rovesciate l’impasto sul piano di lavoro, dategli le solite otto-nove torciture (e se non vi ricordate cosa sono, date un’occhiata al filmato in questa pagina), poi rimettetelo nella ciotola pulita, ungetelo appena d’olio, sigillate con della pellicola e fate lievitare per almeno un’ora.

Quando sarà raddoppiato di volume, rovesciate l’impasto sul piano e, senza rilavorarlo, dategli la forma di una pagnotta tonda (senza schiacciarlo, ma carezzandolo delicatamente).

Prendete un canovaccio pulito di tela leggera, stendetelo sul piano di lavoro e metteteci sopra un quadrato di carta forno poco più grande della vostra pagnotta. Infarinate tutto per benino, deponete la pagnotta al centro, incidetela con un coltello affilato, infarinatela e richiudete delicatamente il “pacchetto” con un paio nodi morbidi (dovete lasciare spazio per la lievitazione…).

Mettetelo in un contenitore a bordi svasati e alti (un cestino, una ciotola, va bene qualunque cosa purché possa dare alla pagnotta la forma di… pagnotta!) e laciate lievitare per un’altra ora.

Accendete il forno a 240°. Quando l’impasto sarà lievitato, appoggiate il “pacchetto” su una teglia per biscotti e sfliate il canovaccio da sotto la pagnotta senza tirarvi dietro la carta forno (tenete con una mano il canovaccio e con l’altra la carta…). Se la pagnotta dovesse sgonfiarsi un po’, vi toccherà aspettare che ricresca prima di infornarla.

Cuocetela per una decina di minuti, poi abbassate il forno a 200° e continuate la cottura per altri 10-15, dopodiché estraete la teglia dal forno e posate la pagnotta direttamente sulla griglia finché non la vedete del colore della foto (scusate, ma ogni forno è diverso…). A cottura ultimata, lasciate raffreddare il vostro pane di ceci su una gratella prima di posarlo sul tagliere e iniziare ad affettarlo.

E’ buono pure il giorno dopo (provate a tostarlo e ditemi cosa ne pensate…), e potete anche surgelarlo a fette. Accompagnatelo a formaggi, zuppe di verdura e affettati. Ma non disdegnatelo con un velo di burro e un po’ di golden syrup o di miele.

POSTILLE

Del golden syrup
Mi ci è voluto questo post per scoprire finalmente di cosa è fatto il “golden syrup“: fino ad oggi l’avevo soltanto – con grandissimo gusto e piacere – mangiato. Assaggiato durante la mia prima volta in Inghilterra, me ne ero innamorata all’istante: da allora, un barattolo in casa c’è più o meno sempre. Lo spalmo sul pane (se mi sento in vena di peccati, anche con un po’ di burro), un velo appena come fosse miele. Oppure lo metto sullo yogurt, sempre a piccole dosi. Mi piace perché è dolce e aromatico, ma non stucchevole. Non mi avventurerò in spiegazioni scientifiche sulla sua composizione: per queste cose c’è Dario Bressanini (grazie di esistere, Dario…). Ma se alla drogheria sotto casa dovessero chiedervi cos’è ‘sto benedetto golden syrup, potete rispondere con nonchalance che è sciroppo di zucchero invertito a cui hanno lasciato un po’ di melassa. Preparatevi a veder sbiancare il commesso.

… e dei suoi succedanei
Nel caso in cui non lo trovaste, potete sostituire il golden syrup con del miele aromatico, tipo quello di castagno. Oppure con della melassa: ma vedete voi se è il caso. Fatelo solo se dopo la richiesta del golden syrup vedete che il commesso è ancora saldo sulle gambe dietro il bancone…